miti o non violenti?
17 Aprile 2010 Share

miti o non violenti?

 

La legalità non ci salverà dalla violenza, e la violenza non è solo dove ce la addita la TV.

Violenza, criminalità, sicurezza, pace, nonviolenza… Parole d'ordine. Parole riscoperte. Parole violentate, abusate. Le svuotano, mescolano tutto e le riempiono di nuovo aggiungendo un cucchiaio di paura.

 Nel bel mezzo di questo fenomeno inquietante, di fronte alla riflessione di Umberto Berardo su Primo Piano ("Il nostro rapporto con la violenza", 24/11/07) sento il bisogno di esprimere le mie differenze. Pur condividendo con lui la preoccupazione e l'impegno per una società meno violenta, infatti, ci sono fra me e lui delle differenze di fondo nel modo di sentire il problema e nel modo di immaginare i rimedi, e confrontarle ci sarà utile per mantenerci saldi nell'impegno per la pace in mezzo a questo caos indistinto e molto, molto scivoloso.

Umberto pensa alla violenza soprattutto come fonte di disordine sociale, e al suo contrario in termini di mitezza, legalità, non violenza (assenza di violenza). Io vorrei parlare invece da un punto di vista vicino alla nonviolenza, parola che traduce, molto goffamente, la parola indiana Satyagraha, che è molto di più del rifiuto di usare la violenza (coniata da Gandhi, significa all'incirca 'forza insita nella Verità').

Oltre alla violenza in sé, mi preoccupa la nostra disponibilità ad accettarla, a interiorizzarla al punto che a volte nemmeno le diamo il nome di violenza. Le violenze e gli stupri che le donne subiscono in famiglia, da mariti, fidanzati, ex mariti ed ex fidanzati; i bambini troppo vivaci che adesso anche in Italia vengono sedati con il Ritalin; il mercato del lavoro precario e flessibile che ci impone tempi e ritmi che violentano le nostre vite e le nostre relazioni; le madri e i neonati ai quali viene imposta senza nessuna necessità medica la violenza del taglio cesareo; i "cittadini" (italiani) che accerchiano per giorni un edificio in cui sono ospitati i rom lanciando sassi alle finestre e mostrando un fantoccio con il cappio al collo… non sono le rapine e gli scippi le prime cose che mi vengono in mente.

A 'violenza' non associo come prima cosa il disordine sociale o il senso di insicurezza, ma la sofferenza delle persone, e le conseguenze di questa sofferenza. Non che si debba fare una classifica fra le violenze, che sono tutte da condannare e discendono tutte da una medesima cultura della violenza; ma, non fosse altro che per poter indirizzare bene i nostri sforzi, mi pare essenziale discernere fra atti contro il patrimonio (furti, scippi) e atti contro la persona (maltrattamenti, aggressioni, omicidi). E per la stessa ragione mi sembra che dovremmo farci un'idea dell'entità dei fenomeni in base a parametri un po' più attendibili della 'sensazione' provata guardando la tv: perché chi vuole, anche con la più grande buona volontà, adoperarsi contro la violenza, deve sapere che, ad esempio, la criminalità di strada fa molte meno vittime della violenza domestica o “passionale”, e che i delitti passionali sono in netto aumento, mentre i reati di strada no (fonte: http://www.poliziadistato.it/ pds/ primapagina/ rapporto_crim/ 2006.html). Questo significa che è l'informazione e non 'la realtà' a generare il senso di insicurezza, cioè a mettere paura; e su basi razziste, come giustamente osserva Umberto. Ma significa anche, e soprattutto, che educare i ragazzi al rispetto dell'altro sesso sarebbe molto più utile che educarli al rispetto della legge.

Questo, comunque, non solo per ragioni statistiche. Non è il rispetto della legge la vera chiave per eliminare la violenza, ma il rispetto della persona, la capacità di relazionarsi, la possibilità di sviluppare pienamente la propria umanità in relazione agli altri e alle altre. Il rispetto della legge è un valore astratto e, se si invocano certezza della pena e deterrenza, allora lo si rende anche un rispetto interessato, generato dal timore della punizione. Ma gli esseri umani non funzionano così.

Quale madre immaginerebbe di essere rispettata dai figli solo per timore delle punizioni? Le relazioni, il piacere e il bisogno che abbiamo di stare con gli altri, l'esperienza di una società, di uno 'stare insieme' che funziona, sono sicuramente forze più potenti di un presunto 'contratto' di civile convivenza basato sulla legge.

E poi, non tutte le azioni illegali sono violente, non tutte le azioni legali sono non violente, e la legge non è perfezione, non è verità, non è etica. Girare senza carta d'identità è un gesto violento? Il divorzio, quando era illegale, era violenza, o non lo era piuttosto costringere due persone a stare insieme contro i loro desideri? E la renitenza alla leva, prima della legge sull'obiezione di coscienza, cos'era, considerato che all'epoca l'obbligo del servizio militare era appunto parte della legalità, la quale, nelle parole di Umberto Berardo, è "posta alla base della convivenza"?

So bene che la parola 'legalità' ha anche un'altra accezione, quella che la  contrappone a 'mafia' in senso lato, e che probabilmente è in quel senso che la usa Umberto; ma voglio mettere in guardia dalla tendenza, oggi diffusa, a santificare la legge, e dai rischi, dalle contraddizioni, dai fallimenti cui ci espone il considerare la legalità uno strumento forte per eliminare la violenza.

Gandhi  sosteneva che i tribunali fossero una delle peggiori piaghe portate in India dall'Inghilterra, perché diseducavano gli individui, esonerandoli dalla responsabilità di risolvere pacificamente fra loro i propri conflitti. D'altra parte la legge prevede il carcere, che è innegabilmente una violenza – necessaria, può darsi: ma  che sia una violenza, almeno idealmente, è bene non dimenticarlo.

Cosa ci serve allora per debellare la violenza? Dobbiamo educare le nuove generazioni alla mitezza? Perdonatemi, sono pedante: io non parlerei di mitezza. La mitezza da sola può essere impotente, o addirittura tiepida, di fronte alle ingiustizie. La nonviolenza (satyagraha), invece, è proprio la continua ricerca di una via che consenta di opporsi alle ingiustizie non meno fermamente di chi lancia i sassi o le bombe, e soprattutto più efficacemente di costoro, ma senza ricorrere alla violenza. Le studentesse e gli studenti neri che nel 1960, con la loro mobilitazione nonviolenta, misero fine alla segregazione razziale a Greensboro (North Carolina) e poi negli USA non erano certo miti. O almeno non solo. L'aggettivo 'mite' può avere varie accezioni, ma di certo quei ragazzi/e non erano tipi da subire le discriminazioni per amore del quieto vivere o per timore del conflitto, e non chiesero per favore ai bianchi di poter sedere al loro tavolo nei ristoranti. Lo fecero e basta, con costanza e senza violenza, e in pochi mesi riuscirono a liberare la loro città, e in pochi anni tutti gli Stati Uniti, dalla segregazione razziale.

Viviamo in un'epoca in cui le parole perdono il loro significato. La parola pace è ovunque e tutti si dicono pacifisti. Le guerre si chiamano "missioni di pace", e proteste appena un po' originali o insubordinate sono subito definite "violente". Sono state definite violente le donne del corteo del 25 novembre scorso "Contro la violenza degli uomini sulle donne",  perché sono salite da non invitate sul palco di La7, un palco che occupava il centro della loro piazza e su cui si parlava di loro con le solite ministre.

Del resto, si parla senza imbarazzo di "violenza inaccettabile" nelle più svariate occasioni, e per eccellenza quando qualcuno non dico insulta, minaccia, malmena, ma soltanto fischia un personaggio importante in una manifestazione. Chi fa ciò, anzi, è il tipico "manifestante violento". E bloccare un treno che trasporta armi, sdraiarsi sui binari e stare lì, anche quello è da "manifestanti violenti".

In un contesto simile, in cui ci sfugge e ci viene sottratto persino il senso delle parole, la radicalità nel linguaggio come nelle pratiche è fondamentale. La nonviolenza è una scelta radicale, non utopica. Una società assolutamente senza violenza, senza eserciti, senza carcere, è forse un'utopia. Ma le utopie sono utilissime, perché servono a darci una direzione e a non farci scivolare in direzioni non volute. Tutto questo me lo ha insegnato, chiaramente, mio padre, e penso di poter dire che quanto sopra è un'interpretazione fedele del suo pensiero. ☺

 

 

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