Quando penso a questo teatrino tragico di certa politica, non posso fare a meno di pensare a quanti hanno già perso il posto di lavoro, a chi si sente in bilico tra una cassa integrazione e il baratro, a chi ha sempre fatto impresa e fornito lavoro a dipendenti–amici e padri o madri di famiglia che oggi stentano a marcare un sorriso ed hanno perso la speranza. Penso ai pensionati, quelli che hanno lavorato tutta la vita per un sostentamento minimo che oggi non consente più loro una vita dignitosa. Penso a tutti i sogni infranti dei nostri figli per il loro futuro. Penso a tutte le conquiste faticate da più generazioni per vivere nella giustizia e nella equità sociale, svanite come in una bolla di sapone per colpe anche nostre, per aver tollerato, per aver fatto spallucce dinanzi ad una politica sporca di sporche alleanze utili soltanto a conservare privilegi personali, disposti anche a far patto col diavolo pur di restare a galla. Penso a tutti coloro che hanno affollato le strade e le piazze per manifestare un dissenso inascoltato… e a tutti coloro che soffrono in silenzio.
Pensavo che la nostra fosse una Repubblica fondata sul lavoro e non sulla rendita o sulla speculazione finanziaria e pensavo che, come recita l’articolo 11 della nostra Costituzione, la sovranità popolare potesse essere limitata solo per garantire la pace e la giustizia ma non per far piacere ai mercati e rendere i titoli più appetibili.
In che mani siamo finiti? E il popolo cosa rappresenta oggi? Solo se non è una massa informe di individui, destinati a rapportarsi con il potere in condizione di fatale fragilità, il popolo può esprimere un’identità. Come diceva Alexis de Tocqueville due secoli fa, una democrazia è solida e vitale se tra l’individuo e il potere si frappone una membrana ricca di formazioni sociali, al cui interno possono trovare ospitalità il percorso di maturazione civile e il confronto fra le persone, necessari per discernere criticamente l’azione della classe politica.
La nostra oggi è una condizione assai strana. Nuove forze sociali più che politiche si affacciano all’orizzonte nella suprema intenzione di riportare al centro la nostra vicenda umana e sociale. Ma la via di uscita, talora indicata, nella fondazione di nuovi partiti da parte degli esclusi non convince appieno, sia perché conduce alla esasperata e disorientante frammentazione dell’offerta politica, sia perché propone l’idea che il partito possa essere lo strumento di una qualche consorteria o, peggio, di un padrone.
Intanto, come una valanga, ci piombano addosso frettolose elezioni, quelle che avremmo voluto all’indomani delle dimissioni del famoso e innominabile ex-premier.
Temo che il Paese sarà difficilmente governabile, dati gli strani apparentamenti tesi unicamente al mantenimento delle proprie posizioni. L’unica cosa che avremmo voluto (noi popolo) era una legge elettorale che ci consentisse davvero di esprimere una opinione, ma pare che facesse comodo tanto a destra che a sinistra restare “porcellum”.
La politica molisana, nel suo complesso, esprime tutta la sua mediocrità e soprattutto la mancanza di idee e progetti per uscire dal guado. Se invece tutti noi ci proponessimo con più coraggio nella nostra quotidianità esigendo diritti e non “favori” personali, se tutti coloro che lavorano nella pubblica amministrazione prendessero coscienza esercitando al meglio le proprie funzioni, se ognuno si proponesse di dare il meglio di sé senza risparmiarsi mai allora, e solo allora, la politica potrebbe cambiare.
Un nostro amico scrittore, tale Umberto Berardo da Duronia, qualche anno fa scrisse un libro dal titolo ambiziosamente profetico: Se si sveglia l’utopia.
Perdonatemi se oso sperare…
giuliadambrosio@hotmail.it
Quando penso a questo teatrino tragico di certa politica, non posso fare a meno di pensare a quanti hanno già perso il posto di lavoro, a chi si sente in bilico tra una cassa integrazione e il baratro, a chi ha sempre fatto impresa e fornito lavoro a dipendenti–amici e padri o madri di famiglia che oggi stentano a marcare un sorriso ed hanno perso la speranza. Penso ai pensionati, quelli che hanno lavorato tutta la vita per un sostentamento minimo che oggi non consente più loro una vita dignitosa. Penso a tutti i sogni infranti dei nostri figli per il loro futuro. Penso a tutte le conquiste faticate da più generazioni per vivere nella giustizia e nella equità sociale, svanite come in una bolla di sapone per colpe anche nostre, per aver tollerato, per aver fatto spallucce dinanzi ad una politica sporca di sporche alleanze utili soltanto a conservare privilegi personali, disposti anche a far patto col diavolo pur di restare a galla. Penso a tutti coloro che hanno affollato le strade e le piazze per manifestare un dissenso inascoltato… e a tutti coloro che soffrono in silenzio.
Pensavo che la nostra fosse una Repubblica fondata sul lavoro e non sulla rendita o sulla speculazione finanziaria e pensavo che, come recita l’articolo 11 della nostra Costituzione, la sovranità popolare potesse essere limitata solo per garantire la pace e la giustizia ma non per far piacere ai mercati e rendere i titoli più appetibili.
In che mani siamo finiti? E il popolo cosa rappresenta oggi? Solo se non è una massa informe di individui, destinati a rapportarsi con il potere in condizione di fatale fragilità, il popolo può esprimere un’identità. Come diceva Alexis de Tocqueville due secoli fa, una democrazia è solida e vitale se tra l’individuo e il potere si frappone una membrana ricca di formazioni sociali, al cui interno possono trovare ospitalità il percorso di maturazione civile e il confronto fra le persone, necessari per discernere criticamente l’azione della classe politica.
La nostra oggi è una condizione assai strana. Nuove forze sociali più che politiche si affacciano all’orizzonte nella suprema intenzione di riportare al centro la nostra vicenda umana e sociale. Ma la via di uscita, talora indicata, nella fondazione di nuovi partiti da parte degli esclusi non convince appieno, sia perché conduce alla esasperata e disorientante frammentazione dell’offerta politica, sia perché propone l’idea che il partito possa essere lo strumento di una qualche consorteria o, peggio, di un padrone.
Intanto, come una valanga, ci piombano addosso frettolose elezioni, quelle che avremmo voluto all’indomani delle dimissioni del famoso e innominabile ex-premier.
Temo che il Paese sarà difficilmente governabile, dati gli strani apparentamenti tesi unicamente al mantenimento delle proprie posizioni. L’unica cosa che avremmo voluto (noi popolo) era una legge elettorale che ci consentisse davvero di esprimere una opinione, ma pare che facesse comodo tanto a destra che a sinistra restare “porcellum”.
La politica molisana, nel suo complesso, esprime tutta la sua mediocrità e soprattutto la mancanza di idee e progetti per uscire dal guado. Se invece tutti noi ci proponessimo con più coraggio nella nostra quotidianità esigendo diritti e non “favori” personali, se tutti coloro che lavorano nella pubblica amministrazione prendessero coscienza esercitando al meglio le proprie funzioni, se ognuno si proponesse di dare il meglio di sé senza risparmiarsi mai allora, e solo allora, la politica potrebbe cambiare.
Un nostro amico scrittore, tale Umberto Berardo da Duronia, qualche anno fa scrisse un libro dal titolo ambiziosamente profetico: Se si sveglia l’utopia.
Quando penso a questo teatrino tragico di certa politica, non posso fare a meno di pensare a quanti hanno già perso il posto di lavoro, a chi si sente in bilico tra una cassa integrazione e il baratro, a chi ha sempre fatto impresa e fornito lavoro a dipendenti–amici e padri o madri di famiglia che oggi stentano a marcare un sorriso ed hanno perso la speranza. Penso ai pensionati, quelli che hanno lavorato tutta la vita per un sostentamento minimo che oggi non consente più loro una vita dignitosa. Penso a tutti i sogni infranti dei nostri figli per il loro futuro. Penso a tutte le conquiste faticate da più generazioni per vivere nella giustizia e nella equità sociale, svanite come in una bolla di sapone per colpe anche nostre, per aver tollerato, per aver fatto spallucce dinanzi ad una politica sporca di sporche alleanze utili soltanto a conservare privilegi personali, disposti anche a far patto col diavolo pur di restare a galla. Penso a tutti coloro che hanno affollato le strade e le piazze per manifestare un dissenso inascoltato… e a tutti coloro che soffrono in silenzio.
Pensavo che la nostra fosse una Repubblica fondata sul lavoro e non sulla rendita o sulla speculazione finanziaria e pensavo che, come recita l’articolo 11 della nostra Costituzione, la sovranità popolare potesse essere limitata solo per garantire la pace e la giustizia ma non per far piacere ai mercati e rendere i titoli più appetibili.
In che mani siamo finiti? E il popolo cosa rappresenta oggi? Solo se non è una massa informe di individui, destinati a rapportarsi con il potere in condizione di fatale fragilità, il popolo può esprimere un’identità. Come diceva Alexis de Tocqueville due secoli fa, una democrazia è solida e vitale se tra l’individuo e il potere si frappone una membrana ricca di formazioni sociali, al cui interno possono trovare ospitalità il percorso di maturazione civile e il confronto fra le persone, necessari per discernere criticamente l’azione della classe politica.
La nostra oggi è una condizione assai strana. Nuove forze sociali più che politiche si affacciano all’orizzonte nella suprema intenzione di riportare al centro la nostra vicenda umana e sociale. Ma la via di uscita, talora indicata, nella fondazione di nuovi partiti da parte degli esclusi non convince appieno, sia perché conduce alla esasperata e disorientante frammentazione dell’offerta politica, sia perché propone l’idea che il partito possa essere lo strumento di una qualche consorteria o, peggio, di un padrone.
Intanto, come una valanga, ci piombano addosso frettolose elezioni, quelle che avremmo voluto all’indomani delle dimissioni del famoso e innominabile ex-premier.
Temo che il Paese sarà difficilmente governabile, dati gli strani apparentamenti tesi unicamente al mantenimento delle proprie posizioni. L’unica cosa che avremmo voluto (noi popolo) era una legge elettorale che ci consentisse davvero di esprimere una opinione, ma pare che facesse comodo tanto a destra che a sinistra restare “porcellum”.
La politica molisana, nel suo complesso, esprime tutta la sua mediocrità e soprattutto la mancanza di idee e progetti per uscire dal guado. Se invece tutti noi ci proponessimo con più coraggio nella nostra quotidianità esigendo diritti e non “favori” personali, se tutti coloro che lavorano nella pubblica amministrazione prendessero coscienza esercitando al meglio le proprie funzioni, se ognuno si proponesse di dare il meglio di sé senza risparmiarsi mai allora, e solo allora, la politica potrebbe cambiare.
Un nostro amico scrittore, tale Umberto Berardo da Duronia, qualche anno fa scrisse un libro dal titolo ambiziosamente profetico: Se si sveglia l’utopia.
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