reinserimento in comunità
31 Maggio 2010 Share

reinserimento in comunità

 

In una comunità, l’ingresso di un utente nella fase di reinserimento segna un passaggio fondamentale. Pur continuando il lavoro terapeutico con operatori e psicoterapeuti, egli ora è chiamato a sperimentarsi in nuovi ambiti socio-lavorativi, svincolandosi, gradualmente, dal contesto comunitario. Per l’occasione, alla comunità Il Noce si organizza una intera giornata dedicata al soggetto che si appresta al passaggio, il quale presenta una lunga riflessione scritta sul bilancio del percorso intrapreso e sui prossimi obiettivi. Egli, poi, si offre ad un confronto con tutti gli altri utenti ed operatori, per poi diventare il protagonista di un’attività formativa e di un role playing in un clima che, per la sua intensità, assume i contorni di un vero e proprio rito celebrativo.

Quella che segue è un’intervista a Riccardo, che dopo circa due anni di percorso comunitario è giunto a questo traguardo.

Che ruolo e che significato ha avuto l’alcool nella tua esperienza passata?

Sarei stupido se negassi che l’alcool per me ha rappresentato in passato un rifugio importante; con una battuta potrei dire che ho provato ad affidare a lui il compito di darmi fiducia, di far sì che l’autostima fosse sempre a livelli accettabili per me.

Autostima? In che senso è stata legata al tuo uso di alcool?

Ripensando al periodo universitario, quello in cui ho cominciato con l’abuso di alcool, mi torna in mente quell’ansia di dimostrare il mio valore, le mie capacità e la paura del giudizio altrui. E penso, poi, alla mia tendenza a sottovalutarmi e ad essere ipercritico verso me stesso. Temi su cui ho lavorato tanto in questi due anni, ma su cui dovrò ancora tanto lavorare.

Locali, bar, o anche semplici inviti a pranzo. Temi possano provocarti il cosiddetto craving?

Per la natura solitaria dell’uso di alcool fatto nella mia vita non ho da guardarmi le spalle nei confronti di ambienti e situazioni potenzialmente a rischio, né il frequentare gruppi che, non avendo problemi di questo tipo, ne fanno un uso moderato, mi ha mai indotto al craving (=desiderio compulsivo di bere, ndr). È sempre stato il disagio interno più che l’occasione esterna ad indurmi all’utilizzo: sono veramente l’unico “attore” della nascita della mia dipendenza e sarebbe bene che tutte le persone, che come me hanno una propensione all’isolamento, facciano attenzione, vista anche la lenta ed inesorabile tendenza all’individualismo che il modello occidentale di società ci propone. È in questo settore che ho dovuto affrontare il lavoro maggiore, quello che più mi ha portato alla contrapposizione con l’equipe degli operatori e che tuttora mi richiede lo sforzo maggiore: allacciare nuovi rapporti, mantenere le relazioni acquisite sono aspetti della mia vita – so che è un paradosso – che mi richiedono un’attenzione razionale, non riesco a dar loro quello sfogo naturale ed istintivo che esse hanno. Ci sono state anche in quest’ultimo periodo occasioni in cui ho sentito il desiderio di isolarmi, ma è pur vero che ho trovato la lucidità di tenere a bada questa mia propensione. Da qualche mese, nonostante un ginocchio a dir poco malconcio, mi sono unito agli allenamenti della squadra di calcio di Petacciato e anche questo mi sta aiutando alla costruzione di una rete sociale al di fuori della comunità.

Quali saranno i tuoi prossimi passi da un punto di vista terapeutico?

Se una rete sociale è un bene indispensabile, quella di supporto terapeutico per l’individuo che ha navigato nelle dipendenze è fondamentale. Sono conscio che questo non sia paragonabile ad un ricovero e sono altrettanto consapevole che determinati miei atteggiamenti ed insicurezze, pur avendoli trattati e, più o meno, messi sotto controllo, si annidano ancora nel mio animo. Sarei uno stolto se pensassi di essere andato in officina, aver sostituito il pezzo meccanico difettoso e risolto così definitivamente il problema. Ritengo piuttosto di essere riuscito finalmente a mettere a fuoco le cause che l’hanno generato ed alimentato. Dal momento che, come suole dirsi, squadra vincente non si cambia, continuerò il lavoro iniziato senza perdere i contatti con le persone di questa comunità e con la psicologa del Ser.T di Campobasso

E sotto il profilo lavorativo, come immagini il tuo reinserimento?

La consapevolezza di poter rientrare nel mondo del lavoro a pieno ritmo, in maniera produttiva, non la metto minimamente in dubbio. Di certo l’età che ho, la concorrenza, il momento di crisi mi impongono di prendere in considerazione qualsiasi occasione mi si presenti. Prima della comunità, pur avendo svolto varie mansioni, la mia attività principale è consistita nella programmazione informatica, settore che mi appassiona da sempre e nel quale posso affermare di avere un curriculum invidiabile. Purtroppo da ex-dipendente ho qualche svantaggio, dovuto al pregiudizio sociale, nella ricerca di un lavoro. D’altra parte le istituzioni non offrono alcun “incentivo” al riassorbimento nella società delle persone nelle mie condizioni. Ma queste sono cose che non mi dovranno in alcun modo scoraggiare.

E, più in generale, cosa ti aspetti da te nel tuo futuro?

C’è ancora da fare nel cantiere Riccardo, per le relazioni, per l’autostima, per l’equilibrio nella ricerca della serenità. Ho così tanto da portare avanti che penso ci siano alcuni punti da avere sempre sotto i miei occhi: riuscire ad accontentarmi anche dei piccoli passi, esserne io l’attore e non cucirmeli addosso come adattamento ad una situazione contingente, iniziare ad esserne cosciente senza interventi esterni e, soprattutto, non demordere dal cercarlo, il cambiamento, in meglio.☺

coopilnoce@libero.it

 

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