Mi ricordo quei giorni come se fossero passati da poco. Ricordo mio padre che portava tutta la famiglia a visitare lo stabilimento. Ricordo l'espressione del suo volto, quel senso di fierezza nel descrivere il suo lavoro, la struttura della fabbrica, la catena di montaggio e il prodotto finito. Ricordo quella sensazione che ora è sempre più difficile trovare in un lavoratore, credo si possa tradurre in qualcosa come senso di appartenenza.
A papà piaceva fare bene il suo lavoro, si impegnava sempre a fondo. Le giornate in cui i cancelli venivano aperti alle famiglie erano sempre un po' particolari, di solito si presentava un nuovo motore per una nuova automobile e per noi bambini, a fine giro, c'erano dei modellini della macchina in regalo. A me quelle giornate piacevano, così come piaceva andare lì a Natale, perché mi spettava sempre un regalo, in quanto figlia di un dipendente. Era bello, avevo l'illusione che quella fabbrica fosse una grande famiglia.
Poi sono cresciuta e ho capito cosa significavano i vari termini. C'era quello che mi sembrava così strano, cassa integrazione, che associavo a papà a casa con l'aria preoccupata. Poi ho capito il funzionamento della turnazione e del perché il papà di una mia amica dormiva sempre quando andavo a fare i compiti a casa sua il pomeriggio. Lui faceva il turno di notte fisso.
Crescendo ancora e diventando abbastanza grande, ho capito perché papà era infastidito dal dover partire per andare a fare dei periodi di lavoro/formazione a Torino. Diceva che era stufo di viaggiare, che la vita da emigrante l'aveva già fatta. Ma poi ovviamente doveva andarci.
Quando ero adolescente, a Termoli la fabbrica era in fase di rivoluzione. Si parlava di necessità di dover cambiare i turni. Ricordo ancora come impostarono la cosa, con frasi come “Così facendo, diamo la possibilità di assumere altre persone, diamo lavoro ai giovani”. C'era chi non era d'accordo, perché questo avrebbe peggiorato le condizioni lavorative. Furono tesi ritenute sciocche e il nuovo orario passò.
Con il passare degli anni ho capito molte cose di quella fabbrica, della sua organizzazione aziendale, degli innumerevoli aiuti da parte dello Stato sotto continua minaccia di chiusura degli stabilimenti e spostamento dell'attività altrove, del fatto che i sacrifici vanno fatti se vuoi tenerti il posto di lavoro ma chissà perché questi sacrifici li chiedono quasi sempre agli operai.
Oggi mio padre è in pensione, alla FIAT ha dedicato 27 anni della sua vita e ha lasciato un po' di udito nei reparti di cambi e motori. In questi giorni a Mirafiori c'è un referendum dove gli operai devono decidere tra accettare condizioni lavorative diverse o rifiutarle e dire addio a uno degli stabilimenti storici italiani. Scegliere insomma se avere ancora un lavoro o perderlo. C'è chi dice che sia un buon accordo e chi no, sta di fatto che porre la questione in questi termini più che un referendum sembra un ultimatum.
Stavolta non ho imparato nessun termine nuovo su questa fabbrica, ho solo rivissuto qualcosa di già visto. Credo che si possa riassumere in un concetto purtroppo sempre più di moda: ricatto mascherato da democrazia. ☺
bonsai79@katamail.com
Mi ricordo quei giorni come se fossero passati da poco. Ricordo mio padre che portava tutta la famiglia a visitare lo stabilimento. Ricordo l'espressione del suo volto, quel senso di fierezza nel descrivere il suo lavoro, la struttura della fabbrica, la catena di montaggio e il prodotto finito. Ricordo quella sensazione che ora è sempre più difficile trovare in un lavoratore, credo si possa tradurre in qualcosa come senso di appartenenza.
A papà piaceva fare bene il suo lavoro, si impegnava sempre a fondo. Le giornate in cui i cancelli venivano aperti alle famiglie erano sempre un po' particolari, di solito si presentava un nuovo motore per una nuova automobile e per noi bambini, a fine giro, c'erano dei modellini della macchina in regalo. A me quelle giornate piacevano, così come piaceva andare lì a Natale, perché mi spettava sempre un regalo, in quanto figlia di un dipendente. Era bello, avevo l'illusione che quella fabbrica fosse una grande famiglia.
Poi sono cresciuta e ho capito cosa significavano i vari termini. C'era quello che mi sembrava così strano, cassa integrazione, che associavo a papà a casa con l'aria preoccupata. Poi ho capito il funzionamento della turnazione e del perché il papà di una mia amica dormiva sempre quando andavo a fare i compiti a casa sua il pomeriggio. Lui faceva il turno di notte fisso.
Crescendo ancora e diventando abbastanza grande, ho capito perché papà era infastidito dal dover partire per andare a fare dei periodi di lavoro/formazione a Torino. Diceva che era stufo di viaggiare, che la vita da emigrante l'aveva già fatta. Ma poi ovviamente doveva andarci.
Quando ero adolescente, a Termoli la fabbrica era in fase di rivoluzione. Si parlava di necessità di dover cambiare i turni. Ricordo ancora come impostarono la cosa, con frasi come “Così facendo, diamo la possibilità di assumere altre persone, diamo lavoro ai giovani”. C'era chi non era d'accordo, perché questo avrebbe peggiorato le condizioni lavorative. Furono tesi ritenute sciocche e il nuovo orario passò.
Con il passare degli anni ho capito molte cose di quella fabbrica, della sua organizzazione aziendale, degli innumerevoli aiuti da parte dello Stato sotto continua minaccia di chiusura degli stabilimenti e spostamento dell'attività altrove, del fatto che i sacrifici vanno fatti se vuoi tenerti il posto di lavoro ma chissà perché questi sacrifici li chiedono quasi sempre agli operai.
Oggi mio padre è in pensione, alla FIAT ha dedicato 27 anni della sua vita e ha lasciato un po' di udito nei reparti di cambi e motori. In questi giorni a Mirafiori c'è un referendum dove gli operai devono decidere tra accettare condizioni lavorative diverse o rifiutarle e dire addio a uno degli stabilimenti storici italiani. Scegliere insomma se avere ancora un lavoro o perderlo. C'è chi dice che sia un buon accordo e chi no, sta di fatto che porre la questione in questi termini più che un referendum sembra un ultimatum.
Stavolta non ho imparato nessun termine nuovo su questa fabbrica, ho solo rivissuto qualcosa di già visto. Credo che si possa riassumere in un concetto purtroppo sempre più di moda: ricatto mascherato da democrazia. ☺
Mi ricordo quei giorni come se fossero passati da poco. Ricordo mio padre che portava tutta la famiglia a visitare lo stabilimento. Ricordo l'espressione del suo volto, quel senso di fierezza nel descrivere il suo lavoro, la struttura della fabbrica, la catena di montaggio e il prodotto finito. Ricordo quella sensazione che ora è sempre più difficile trovare in un lavoratore, credo si possa tradurre in qualcosa come senso di appartenenza.
A papà piaceva fare bene il suo lavoro, si impegnava sempre a fondo. Le giornate in cui i cancelli venivano aperti alle famiglie erano sempre un po' particolari, di solito si presentava un nuovo motore per una nuova automobile e per noi bambini, a fine giro, c'erano dei modellini della macchina in regalo. A me quelle giornate piacevano, così come piaceva andare lì a Natale, perché mi spettava sempre un regalo, in quanto figlia di un dipendente. Era bello, avevo l'illusione che quella fabbrica fosse una grande famiglia.
Poi sono cresciuta e ho capito cosa significavano i vari termini. C'era quello che mi sembrava così strano, cassa integrazione, che associavo a papà a casa con l'aria preoccupata. Poi ho capito il funzionamento della turnazione e del perché il papà di una mia amica dormiva sempre quando andavo a fare i compiti a casa sua il pomeriggio. Lui faceva il turno di notte fisso.
Crescendo ancora e diventando abbastanza grande, ho capito perché papà era infastidito dal dover partire per andare a fare dei periodi di lavoro/formazione a Torino. Diceva che era stufo di viaggiare, che la vita da emigrante l'aveva già fatta. Ma poi ovviamente doveva andarci.
Quando ero adolescente, a Termoli la fabbrica era in fase di rivoluzione. Si parlava di necessità di dover cambiare i turni. Ricordo ancora come impostarono la cosa, con frasi come “Così facendo, diamo la possibilità di assumere altre persone, diamo lavoro ai giovani”. C'era chi non era d'accordo, perché questo avrebbe peggiorato le condizioni lavorative. Furono tesi ritenute sciocche e il nuovo orario passò.
Con il passare degli anni ho capito molte cose di quella fabbrica, della sua organizzazione aziendale, degli innumerevoli aiuti da parte dello Stato sotto continua minaccia di chiusura degli stabilimenti e spostamento dell'attività altrove, del fatto che i sacrifici vanno fatti se vuoi tenerti il posto di lavoro ma chissà perché questi sacrifici li chiedono quasi sempre agli operai.
Oggi mio padre è in pensione, alla FIAT ha dedicato 27 anni della sua vita e ha lasciato un po' di udito nei reparti di cambi e motori. In questi giorni a Mirafiori c'è un referendum dove gli operai devono decidere tra accettare condizioni lavorative diverse o rifiutarle e dire addio a uno degli stabilimenti storici italiani. Scegliere insomma se avere ancora un lavoro o perderlo. C'è chi dice che sia un buon accordo e chi no, sta di fatto che porre la questione in questi termini più che un referendum sembra un ultimatum.
Stavolta non ho imparato nessun termine nuovo su questa fabbrica, ho solo rivissuto qualcosa di già visto. Credo che si possa riassumere in un concetto purtroppo sempre più di moda: ricatto mascherato da democrazia. ☺
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