voglia di comunità
6 Marzo 2010 Share

voglia di comunità

 

Capita a chi deve affrontare la fatica seducente di scalare una cima che affascina per il percorso e per il traguardo finale, di armarsi della volontà di studiare i sentieri nelle mappe tracciate sulle orme di  esperti esploratori.

C’è nostalgia di comunità nel nostro mondo invaso da istinti separatisti di individui, gruppi e congreghe volti ad affermare il proprio potere e i propri esclusivi interessi. Senza voler cedere al catastrofismo, non possiamo non riconoscere che la cultura di comunità è divenuta erba estranea nell’orto che questa società va coltivando.

A proposito di sentieri già tracciati, è giunta l’ora di ridare tempo e spazio alla coltura di piante e profumi che segnarono fortemente gli anni del secondo dopoguerra. Fu allora che i nostri padri furono testimoni della volontà e della determinazione con cui uomini come Adriano Olivetti si adoperarono per dare segnali forti di comunità. Ed era un ardimentoso, intelligente ed efficace imprenditore. Siamo nel 1956 e così scriveva lo storico fondatore di una delle più dinamiche imprese del tempo:”Milioni di italiani attendono con ansia crescente un rinnovamento materiale e morale. Sebbene questo possa dirsi in cammino per i vari segni che le forze dei giovani ci indicano riempiendoci di speranza, esso trova innanzi a sé forze negative di cui conosciamo ormai fin troppo bene la struttura cancerosa, la volontà testarda, la natura corrotta”.

È questa l’analisi di un grande testimone che si impegna per una nuova democrazia attiva.  Adriano Olivetti prosegue col denunciare alcuni  sintomi di un regime totalitario e ne segnala alcuni segni premonitori come: “la scomparsa quasi totale di una stampa indipendente da gruppi monopolistici, la decadenza delle istituzioni universitarie, la povertà e il letargo delle associazioni culturali, il monopolio della radio e della televisione…”. Pur con qualche lieve aggiornamento sull’analisi in termini anche di accrescimento del degrado (a proposito del duopolio radiotelevisivo…), ci sembra che si parli dell’Italia dei nostri giorni. La politica non si salva da questo panorama di degrado: “I partiti hanno perso il contatto con il popolo”.

Olivetti lanciò una sfida operativa che ci interessa e che ci appella alla mobilitazione. “Solo un movimento sostanzialmente nuovo nel suo modo di essere, non nella sua etichetta, potrebbe garantire alla vita politica italiana l’innesto di forze nuove, suscitare l’entusiasmo dei giovani, essere lievito di rinascita”. La scalata ha scoperto la cima che si intravede lontana: Fare Comunità. Si trattava allora di studiare i sentieri da percorrere. Idee e operosità non potevano mancare ad un produttore di lavoro che aveva fatto di un piccolo entroterra piemontese, il Canavese con capoluogo Ivrea,  il punto più alto di riferimento, nel mondo, dei prodotti industriali per forniture di uffici.

Ed ecco che parte da una specie di retroterra del territorio non molto diverso dal Molise interno, l’idea di dare vita alla comunità intesa come luogo che unisce e non divide, che promuove la collaborazione, che eleva il livello di conoscenza e di istruzione, che pone al vertice più alto la meta positiva del costruire. Comunità è luogo e spirito in cui le ineguaglianze si integrano con le risorse che gli uni mettono a disposizione dei più deboli perché, a loro volta, anch’essi possano dotarsi di abilità e strumenti per far crescere tutti insieme. Insomma, si trattava di creare “un mondo liberato dall’asservimento, dalla forza, dallo strapotere del denaro”. E chi proponeva un cammino così delineato non era né un frate, nè un brav’uomo… ma addirittura un uomo di mercato ma di… altro mercato.

Indubbiamente alla base del percorso da lui ideato e subito avviato ebbe un grande rilievo il taglio di una visione cristiana della storia che si rifaceva al personalismo comunitario. Un’idea nata e cresciuta in Francia e che molto influì sulle correnti anche politiche che ridimensionarono il centralismo statalistico, come, e molto di più, la visione di una società in cui solo i ricchi e i potenti potevano aver spazio di azione e di governo. Ma dal piccolo Canavese il fenomeno si diffuse dovunque e contagiò anche regioni del sud come Sicilia e Basilicata. Nato dal piccolo perché il fondatore era convinto che solo le piccole Comunità generano l’autentico spirito di popolo e costituiscono la sorgente di una autentica democrazia.

La politica ne sarebbe stata contagiata e si trattava di avviare il percorso senza entrare in collisione con nessuno, ma semplicemente valorizzando e mettendo in comune le energie che il disegno comportava. Fu una scuola formidabile per la crescita di una volontà comune nel compartecipare e nel donare non solo energie ma anche beni e denaro. A partire dai più semplici e meno ricchi. Non a caso a creare la prima comunità furono operai  e gente di popolo di un piccolo borgo del Canavese. Costruirono la struttura al centro del paese, per farne luogo di studio, di incontro e di condivisione di tempi e di spazi che non furono più e solo quelli del bar e della piazza, dove forse, come in tanti luoghi tipici dei piccoli centri, fermentava soprattutto il pettegolezzo.

Si chiamava Genesio Berghino l’uomo di popolo che donò per primo alla comunità tutte le sue risorse in denaro e in beni. E non contento si spese in tempo e lavoro per incrementarne i frutti che costituirono occasione di effetto moltiplicatore nell’intera Italia.

C’è questa opportunità anche in questo nostro mondo che non lascia molto spazio alla speranza di cambiamenti? Forse sì, se si finirà di accoccolarsi sul sentiero delle lagnanze e delle fughe… nella rassegnazione all’esistente.

La fondazione di comunità in Molise prosegue il suo cammino e tra breve fornirà i primi segnali di azione. A partire da una rete di contatti che, ai tempi di Olivetti era impossibile mettere in atto e che oggi invece può giovarsi del sistema di comunicazione informatizzato.☺

 le.leone@tiscali.it

 

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