non più gli stessi   di Annamaria Mastropietro
29 Agosto 2011 Share

non più gli stessi di Annamaria Mastropietro

 

Ogni anno ritornano.

I paesi si ripopolano; si riaprono finanche le case chiuse per lunghi periodi, le strade riaccolgono a tutte le ore passi e voci. Sagre e feste popolari si moltiplicano e per poche settimane i piccoli esercenti si avvantaggiano di qualche introito in più.

Si produce una doppia illusione: coloro che sono rimasti sembrano rivivere una convivialità a lungo sospesa; quanti ritornano sperano di riannodare fili di un dialogo che si spera mai interrotto. Si ricrea dunque quell’intesa, quel comune sentire tra chi accoglie e chi ritorna?

I due mondi – a ben vedere –  non sono più gli stessi; una distanza li separa.

Accade – a chi torna da molto lontano, come a chi vive in altra regione del territorio nazionale – di non essere più riconosciuto poiché non riesce a non ostentare, esibire la nuova condizione, sottolineare uno status diverso e comunque migliore rispetto sia al proprio precedente, sia a quello dei residenti; un’abitudine peraltro manifestata il più delle volte in maniera del tutto inconsapevole.

Emigrati, con tutta la retorica che li accompagna; vivono nel luogo d’origine una sorta di spaesamento; di ogni cosa si meravigliano, bocca aperta da turista, barbari a casa loro, perché incontrano difficoltà a riadattarsi con naturalezza a  ritmi ed abitudini un tempo consueti; spinti dalla necessità di quiete e di riposo, la maggior parte di essi, al momento della partenza, ammette che avrebbe desiderato, prima di ogni cosa, abbandonarsi alla nostalgia dei tempi passati, ma non vi è riuscito. Non poteva essere altrimenti per chi ha cristallizzato ricordi, sensazioni, atmosfere, tanto da costruirne un surrogato, per chi ha sovrapposto prepotentemente il suo “mondo migliore” a quello abbandonato, l’immagi- ne edulcorata di una fattoria alla mulino bianco alla fatica, tutta reale, del lavoro dei campi, anche se ormai agevolato dalla meccanizzazione: rimosso il passato, rimane la sua idealizzazione. Ma la “memoria” è ormai sopraffatta!

A ritrovarsi e a riconoscersi sono sufficienti talvolta gli spazi: una chiesa, una piazza, un bosco possono aiutare a provare l’emozione del ricordare e soprattutto ad accorgersi che i “momenti del passato non sono immobili; serbano, nella nostra memoria, il movimento che li trascinava verso l’avvenire – verso un avvenire divenuto a sua volta il passato – trascinandovi anche noi” (M. Proust, Il tempo ritrovato). 

In assenza della fisicità del luogo è ancora stupefacente il piacere, misto alla lacerazione, creato dal semplice ricordo, riaffiorante, della madia della bisnonna; quella madia conteneva tutto un mondo, il mondo di una persona; nessuno può comprenderne il valore, tranne chi, ogni volta che tornava, le faceva visita. Nell’immagi- nario infantile rimane scolpito l’incante- simo che si creava a veder sollevare la base del pesante tavolo dal quale, una volta scoperchiato, uscivano come per miracolo confetti, salsiccia, ricotta, stoviglie e piatti. La proiezione nel futuro dell’immagine del “tavolo che si apriva” ha assunto di volta in volta significati molteplici: essenzialità, parsimonia, rispetto, contentarsi di poco; anche e soprattutto accoglienza, affetto, dono e condivisione.

Si avvera in questo caso quanto riporta nella sua autobiografia il narratore russo Israil Metter: “I ricordi sono come uova d’uccello nel nido, l’anima li scalda per lunghi anni e d’un tratto essi rompono il guscio disordinatamente, inesorabilmente”.

Ogni giorno arrivano.

Non è stato dismesso l’abito del migrante: chi lo indossa, ancora oggi, – e sono a migliaia – scuote la “normalità” tossica di quanti preferiscono assumere l’atteggiamento dello struzzo e rifugiarsi in abusati luoghi comuni. A prevalere è la cultura dell’ovvio, della rassicurazione che esorcizza la paura. Pur di non sentircene esclusi, abdichiamo all’esercizio della memoria: guardiamo il presente come fosse un film che non ci riguarda, precludendoci così il desiderio del futuro: altre civiltà, altre culture che più di noi sono capaci non solo di nutrire progetti di libertà, ma anche di volerli realizzare ad ogni costo. Si scontrano purtroppo con la nostra mancanza di volontà e di coraggio di confrontarci con l’altro, dimentichi, come siamo diventati, che prima di ora – e per ora si intendono gli ultimi trent’anni di iato tra politica e società – siamo stati qualche cosa, abbiamo sognato e tenacemente desiderato.

Più che affannarsi nell’impossibi- lità del ritrovamento di quegli anni e di quei  ricordi ci converrebbe, nel ripercorrere i giorni passati, risvegliare – è ancora Proust a suggerircelo – il movimento che li trascinava verso l’avvenire.☺

annama.mastropietro@tiscali.it

 

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